Prima parte
Sofocle diceva: “Il dolore e la consapevolezza giungono improvvisi, in un solo giorno, a rovesciare l’esistenza di una persona e a mostrare quanto fragili siano le basi su cui essa si fonda.”
Emergono chiari in queste poche, ma significative righe la fragilità della persona, la sua consapevolezza esistenziale e la sua vita stravolta dalla presenza di una malattia.
Era importante per l’Italia avere una legge che si prendesse cura della fragilità esistenziale della persona.
La legge 22 dicembre 2017 n. 219, pur se frutto di una approvazione last minute, costituisce l’approdo conclusivo di un lungo processo durato oltre un ventennio, iniziato negli anni 80, con un susseguirsi di DDL, che ha portato ad un testo di legge buono, anche se non perfetto.
La legge pone al centro la persona, con l’intento di tutelare le persone deboli e costituisce uno strumento di concreta attuazione dell’art. 32 della Costituzione; tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione. (art. 2 e 13 della cost.).
Massima tutela alla dignità e all’integrità della persona; assoluta valorizzazione delle personalissime convinzioni di ognuno circa il limite di sofferenza che si è disposti a sopportare, sia sotto il profilo fisico, sia sotto il profilo psichico.
E’ una legge che si rivolge a tutti i cittadini, e che tutti sono tenuti a conoscere in quanto consacra molteplici facoltà e diritti che li concerne, laddove essi vengano ad assumere la scomoda condizione di pazienti.
I temi bioeticamente rilevanti trattati dalla legge sono stati spesso frutto di un forte dibattito politico, sull’onda emotiva di molti casi tragici e con un tam tam mediatico molto forte.
Senza l’intervento legislativo vi sarebbe stato (come è capitato) il rischio di lasciare la decisione nelle mani della prudenziale valutazione e della esegesi normativa di alcuni giudici tutelari aditi caso per caso, contribuendo a creare una situazione di incertezza, di vero e proprio forum shopping e di disuguaglianza sostanziale. (Cosa che è avvenuta ad esempio con la possibilità di utilizzare l’istituto dell’amministrazione di sostegno come strumento per veicolare le direttive anticipate di trattamento).
E’ certo un dato di fatto incontestabile che la Magistratura abbia riempito il vuoto lasciato dal potere politico, come è accaduto nel caso Welby (il timore di non riuscire a morire – un uomo macchina) e nel caso Englaro; la giurisprudenza qui ha dovuto fare uno sforzo ermeneutico di tutti i principi – codice civile, costituzione, carte dei diritti UE, la Convenzione di Oviedo, per trovare una soluzione che andasse verso l’interesse del malato.
Il rischio era ovviamente caratterizzato da abusi e inconvenienti e con una giurisprudenza oscillante.
L’importante è che, nonostante la provenienza mediatica della legge, resti ben salda al centro la tutela della persona.
Nell’analizzare la legge si può notare che la stessa, nonostante sia stata definita una buona legge, presenta sia delle imprecisioni terminologiche, ma anche dei vuoti normativi; sarebbe stato opportuno forse al Senato dare spazio ad alcuni emendamenti relativi a correttivi terminologici, ma il rischio di un ulteriore slittamento sarebbe stato deleterio ed oggi non avremmo alcun testo di legge.
Nella legge si parla di un diritto mite, un diritto gentile; ciò non significa che si tratta di un diritto debole, gentile è il fine: un diritto capace di promuovere una relazione di cura degna di una società e di una medicina gentile.
Vi è dunque principalmente il rispetto della persona umana, così come previsto anche dalla Costituzione. (art. 32 comma secondo). La persona al centro come faro, dando concretezza al principio della dignità umana. Una dignità nel nascere, ma anche una dignità nel morire.
Ci troviamo di fronte ad una medicalizzazione della morte, ad un prolungamento dell’aspettativa di vita, legata ad una probabile guarigione. Tuttavia la dignità e la qualità della vita stessa di una persona non deve essere intaccata pesantemente e radicalmente.
La medicina ha fatto passi da gigante; le nuove tecnologie rendono possibile la sopravvivenza. Le macchine sono in grado di sostituire funzioni vitali. Quando la vita viene sostenuta artificialmente diventa difficile morire. L’uomo ha paura di non riuscire a morire.
Bisogna essere padroni delle tecnologie e non prigionieri di esse.
Con la legge 219/2017, quindi, si cerca di arrivare al momento cruciale nel modo migliore, fissando dei limiti medici, bioetici e giuridici alle cure mediche.
L’articolo 1 della Legge si occupa del consenso informato: vi è un forte coinvolgimento del paziente nelle decisioni esistenziali in ordine ai trattamenti sanitari da ricevere, sempre più invasivi, che talvolta servono solo a prolungare una condizione di vita senza offrire significativi miglioramenti.
Si disegna un quadro normativo rispettoso, al contempo, delle diverse sensibilità, nonché dei diritti del malato e dell’integrità professionale del medico.
Si costruisce una nuova forma di medicina condivisa (in contrapposizione alla medicina difensiva del passato) e si tende ad una alleanza terapeutica.
La relazione di cura ha come obiettivo la salute del paziente, la quale si definisce attraverso i suoi aspetti oggettivi – di carattere medico – e soggettivi, che tengono conto della specificità della singola persona nella “sua individualità fisica, psichica, morale, relazionale, di appartenenza e delle sue scelte consapevoli”.
Si parla, allora, di proporzionalità delle cure, di consensualità, di rispetto dell’identità della persona curata.
Vi è una previsione di profonda portata con riferimento al tempo della comunicazione tra medico e paziente che costituisce il tempus curae, un significativo e profondo cambiamento del rapporto tra medico e paziente.
Il paziente/persona diviene protagonista del processo terapeutico.
Il principio paternalistico si sposta dunque verso un principio personalistico: “traghetta” il malato da uno status di debolezza data per scontata (debolezza che è affidata alle cure di un esperto, il medico..) e quindi di “sottomissione” alle cure mediche, ad uno stato più consono alla visione personalistica della nostra Costituzione, quella per cui il malato è prima di tutto una persona.
Trattasi di una sorta di cammino in cui il medico ascolta ed accompagna il paziente in una decisione che coinvolge, o potrebbe coinvolgere, tutta la sua sfera esistenziale, la sua stessa vita. Il diritto alla salute non si contrappone all’autodeterminazione, ma fa tutt’uno con essa, e la salute esprime la personalità individuale, il soggettivo modo di intendere lo star bene.
Da qui dunque la necessità di SAPERE prima. L’intervento del medico non può considerarsi lecito se il paziente prima non ha ricevuto le informazioni riguardanti la sua patologia e i trattamenti sanitari a cui sarà sottoposto.
Il principio del consenso informato è molto ben definito in un passaggio della Sentenza della Corte Costituzionale del 23 dicembre 2008, numero 438 in cui si stabilisce:
“La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento necessario negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha altresì il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi la sua stessa libertà personale, conformemente all’articolo 32, secondo comma della costituzione”.
Il consenso deve essere scritto – libero – attuale – manifesto e consapevole. Deve emergere l’assenso all’intervento medico, vi deve essere una adeguata informazione ed un adeguato grado di comprensione, l’indicazione di eventuali alternative terapeutiche, possibili complicanze, carenze presenti nelle strutture.
La forma può essere scritta o orale. Preferibile la forma scritta, soprattutto ai fini di un probabile contenzioso. Non deve però trattarsi di un modulo pre-stampato, precompilato, con modelli e parole incomprensibili.
Il prestare il consenso informato non è apporre una firma. Vi deve essere la cultura dell’ascolto. Non un disbrigo burocratico ma l’occasione per stringere un patto con una controparte sofferente.
Il fine cui tende il consenso informato è quello della stipula dell’alleanza terapeutica. L’obiettivo è che il soggetto/paziente debba esprimere una consapevole adesione al trattamento sanitario, per permettergli la salvaguardia dell’autodeterminazione, della libertà e della dignità e il rispetto dell’articolo 32 della Costituzione.
Preservare, pur nella fragilità e nella malattia, lo spazio di controllo della propria identità.
Il paziente oggi non è più un soggetto passivo, si serve appunto di internet per cercare informazioni e per rispondere forse ad una sensazione di solitudine che prova di fronte al medico, (quale signore della terapia); è un paziente più esigente e con la richiesta di affrontare la propria salute in modo più consapevole.
Sempre all’articolo 1, ultima parte del comma 3), viene prevista la possibilità che il paziente possa rifiutare di essere informato, e, in sua vece, indicare un familiare o un fiduciario.
Altro punto estremamente rilevante è l’aver considerato come trattamenti sanitari anche l’idratazione e la nutrizione artificiale: consistono nella somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici, con ciò sciogliendo il nodo gordiano che da tempo aveva costituito terreno di scontro. L’uomo deve poter sempre essere autore di una scelta.
Ancora il comma 6) dell’articolo 1, recita che il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge (il riferimento è al divieto di eutanasia attiva e al suicidio assistito, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assisstenziali. Cosa il legislatore volesse intendere con questa ultima indicazione non è chiaro. L’incertezza interpretativa inevitabile potrebbe essere una sorta di “uscita di sicurezza” per i medici.
Sempre con riferimento al medico, c’è da segnalare un vuoto normativo con riferimento alla non previsione per il medico di fare obiezione di coscienza. Non è ipotizzabile un richiamo all’articolo 22 del codice deontologico, in quanto trattasi di disposizione settoriale, fonte secondaria, rispetto alla legge, fonte primaria e dunque non in grado di derogarla.
L’articolo 2) si occupa di fine vita, terapia del dolore e cure palliative. Non vi deve essere accanimento terapeutico. La legge dunque garantisce che le fasi terminali della malattia e della vita possano essere vissute dal malato e dai suoi familiari in modo dignitoso e senza inutili sofferenze, garantendo che il tempo della morte arrivi dignitosamente.
Così è successo ad una giovane donna ammalata di SLA, che, dopo ben quattro richieste di fermare la ventilazione meccanica per tenerla in vita, ha potuto, in attuazione dei principi previsti dalla legge 219/2017, e in attuazione del suo desiderio, chiedere ai medici di staccare la macchina e si è spenta il 5 febbraio u.s., a soli cinque giorni dall’entrata in vigore della legge.
Con la legge si può porre fine a quei lunghi processi ai quali abbiamo assistito sia per il caso Welby o per quello di Eluana Englaro.
Gli articoli 4)e 5) si occupano delle DAT e della pianificazione condivisa delle cure, che formeranno oggetto di un altro articolo.
Come diceva Dante nel canto XVI del Purgatorio “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?” La legge, come detto, è una buona legge, ma vi è il rischio che venga azzoppata dall’attuazione.
Bisogna approfondire scambi, collaborazioni tra varie figure professionali, per trovare il modo di tradurre le nuove norme in prassi realizzabili.